E’ praticamente ovvio, come cantavano anni fa i Bluvertigo, che la terza stagione de La Casa di Carta, sleeper hit spagnolo del bouquet Netflix, non fosse nemmeno nell’anticamera del cervello dei suoi creatori, probabilmente più stupiti di noi nel riscontare l’incredibile successo ottenuto dalla loro creazione. Ed il fatto che questa terza (e quarta, anticipiamo fin da subito che la serie termina con un cliffhanger, proprio com’era successo tra la prima e la seconda stagione) stagione non fosse prevista lo vede dal risibile pretesto con cui questa prende avvio: Tokyo e Rio, dopo averla sfangata come buona parte dei colleghi, si godono la vita in una isoletta da favola sperduta nel nulla, ma alla ragazza, dopo due anni, questa vita viene a noia, “fugge” e il fidanzato si fa beccare come un fesso per contattarla. Da qui in poi si replica quanto già visto, dal momento che questa stagione è, de facto, un clone della prima. Con alcuni cambiamenti, in positivo e negativo.

La cosa più seccante è la caratterizzazione del Professore, probabilmente il miglior personaggio della serie, almeno per come lo avevamo conosciuto in passato: qui, vuoi per il fatto che il piano che mette in pratica non è suo (ma di Berlino, che torna a furor di popolo grazie a tutto sommato azzeccati flashback) e che è rimbambito per questioni sentimentali (la liason con l’ispettrice, diventata “Lisbona”, continua), sbaglia tutto quello che è possibile sbagliare, diventando il ventre molle dell’Asse, incapace di mettere in scacco le Forze dell’Ordine come faceva nella prima/seconda stagione. Nonostante lo script cerchi appunto di giustificarla, questa involuzione è assai poco credibile e fa perdere al personaggio quasi tutto il carisma che aveva dimostrato inizialmente.

Plot e dialoghi sono piuttosto grezzi: ci sono alcune gag oggettivamente raccapriccianti che paiono uscite da un cinepanettone con Boldi e De Sica (la peggiore di tutti è la vistosa erezione che “Arturito”, ora diventato un mix tra un guru e un coach per imbecilli, ha di fronte alla ex amante, ora sposa di Denver), che si alternano a discorsi senza senso (il bum bum ciao…) e pistolotti moraleggianti visti e stravisti. Migliora invece la confezione ed il senso del ritmo: le prime due stagioni avrebbero tranquillamente potuto essere compresse in una sola, se si fossero tagliati molti dialoghi inutili. Stavolta per fortuna gli sceneggiatori sfrondano subito il non necessario e nel giro di poco si passa all’azione.

Come tutti i fenomeni popolari esplosi in breve tempo (a Milano c’erano 5000 persone sedute per terra in Piazza degli Affari per vedersi l’anteprima dei primi due episodi), La Casa di Carta ora ha il grande privilegio di poter proporre quello che gli pare: non riceverà obiezioni e non sarà oggetto di critiche o polemiche, perchè la banda piace, è simpatica e intoccabile. Certo però che il rischio che la serie sbrachi come tutte quelle Netflix che vanno avanti troppo a lungo, c’è tutto. D’altra parte, non tutti possono essere Dark.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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